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mercoledì 18 marzo 2009

Francesco Turano

di Francesco Turano

Alcuni autori identificano in Capo dell’Armi il confine fisico dello Stretto di Messina sul versante meridionale, sponda calabra. Il promontorio, anticamente noto come Leucopetra promontorium, è uno sperone di roccia alto poco più di un centinaio di metri, che si tuffa in una mare blu cobalto molto profondo già a pochi passi da riva. Una fascia di bassofondo separa il promontorio emerso da una successiva scarpata di roccia confinante con la sabbia, una sorta di lingua compatta di calcare perpendicolare al profilo costiero.

Le immersioni più interessanti non sono soltanto sui fondali antistanti il capo, ma soprattutto su quelli del vicino paese di Lazzaro, il cui lungomare è punto di partenza per interessanti esplorazioni profonde su cigliate che, a tratti, si snodano lungo un percorso quasi sempre parallelo alla spiaggia. Due sono gli itinerari che tendo a suggerire quando parlo di questo mare: uno è quello dell’orlata più grande e imponente, che ha come riferimento un piccolo bar ricavato in un chiosco (l’orlata del chiosco). L’altro è quello cosiddetto della Castelluccia, dal nome di un vecchio edificio oggi ammodernato, che rimane comunque un riferimento. In quest’ultimo caso avremo a che fare ancora con un ciglio ma, in più, troveremo una grande grotta con apertura semicircolare rivolta al mare: la grotta della Castelluccia.

Praticare immersioni nel mare di Lazzaro non è certo una passeggiata. Se si tralascia infatti la scogliera litoranea, che giunge al massimo, e solo in prossimità del ristorante “Il Faro”, a profondità dell’ordine dei 15/18 mt (ma che in media si arresta sulla sabbia tra otto e dieci metri di profondità), il rimanente substrato roccioso riprende a svilupparsi al disotto dei 37/40 mt, dopo un lungo intervallo di sabbia in discesa ripida; da qui procede poi a scaloni fino a 70/80 mt di profondità, dove va a morire sul fango compatto. Questi straordinari salti di quota, con dislivelli anche di 8/10 mt, danno origine a cigli imponenti, belli da osservare soprattutto di notte. Ma il rischio è quello di rendere ancor più impegnativa un’immersione già difficile: navigare in profondità, di notte, con l’acqua fredda e a volte col rischio di dover affrontare corrente contraria in risalita, non è certo cosa facile e da gestire con disinvoltura. Ecco perché queste immersioni richiedono molta esperienza e sono consigliabili solo a subacquei molto allenati. Non dimentichiamo mai che ci troviamo ai confini dello Stretto di Messina dove, anche se protetti il più delle volte, potremmo trovarci a dover affrontare qualche corrente imprevista.
Ma cosa offre un itinerario subacqueo così impegnativo da giustificare una simile impresa? Sicuramente qualcosa di speciale, a volte anche molto speciale.

I pesci di Lazzaro
L’incontro, rarissimo e del tutto fortuito, con lo squaletto di profondità Oxinothus centrina è un esempio di quello che questo mare potrebbe offrire: poche volte nella mia vita di fotografo subacqueo ho avuto l’onore e il piacere di osservare dal vivo una simile creatura. E un paio di quelle volte mi trovavo proprio ai piedi di uno di questi orli di roccia, a circa 60 mt di profondità, ovviamente di notte. Lo squalo porco era lì, lento nel nuoto, quasi flemmatico nei suoi spostamenti, incredulo e stordito dalla mia torcia, mal disposto a farsi fotografare ma impotente di fronte ai lampi del flash che rapidamente lo mettevano sempre più a disagio. I suoi sensibili occhi verde smeraldo mal sopportano infatti luci accecanti nell’oscurità: povero pesce, quanti istanti ha dovuto sopportare nell’incontrarmi casualmente nell’avvolgente atmosfera delle tenebre. Che momenti indimenticabili, che preziose sequenze di vita nel mare…


Ma questo squalo si vede davvero raramente, mentre un tempo era del tutto normale nuotare a quella profondità, di notte, tra grandi saraghi fasciati e saraghi maggiori che dormicchiavano sul fondo, insieme ad occhiate e grossi sciarrani. Ogni tanto si vedeva qualche bellissimo scorfano rosso e non era difficile imbattersi in sinuose e bronzee corvine allo scoperto; questo pesce cavernicolo, coadiuvato dalle tenebre a lui tanto care, si lasciava osservare con tranquillità e persino fotografare. Lo stupore di assistere a quello spettacolo di pesci era sempre grande, e i quinidici o venti minuti al massimo che mi concedevo con l’aria, vista l’alta profondità, sembravano sempre pochi attimi, ma erano particolarmente intensi. Ma quel che cercavo quando mi immergevo in quel mare che tanto rispettavo e che io stesso temevo era lo sparide per eccellenza, lui, il maestoso dentice, così bello da guardare da vicino che ancora oggi, a volte, vado fin laggiù nella speranza di avere un nuovo ravvicinato incontro. Oggi la notturna in quelle acque non è più la stessa per tutta una serie di motivi, tra cui mi dispiace annoverare anche quella brutta pratica che alcuni subacquei “deficienti” (consentitemi il termine…) ancora praticano e che consiste nel prelevare pesci col fucile e le bombole in spalla, di notte, non permettendo ai pesci di frequentare con tranquillità quei fondali. Tuttavia, con le giornate giuste e durante l’inverno, è ancora possibile fare delle belle esperienze e incontrare ancora qualcosa, nonostante tutto.

La notturna
Quando, di notte, dai un ultimo sguardo alle luce alternata del faro sul promontorio, luce che sfonda le tenebre segnalando la terra ai naviganti, e poi, in superficie, sgonfi il tuo gav lasciandoti lentamente sprofondare nell’ignoto del mare, sai bene che inizia un’avventura nuova ogni volta, un’immersione in un elemento che non ti appartiene e nel quale ogni incontro è stupefacente. Appena accendi la torcia fai luce subito su qualcosa e già si innesca la curiosità, la sete di scoperta. Quando scendi lungo il pendio sabbioso dei fondali del capo per raggiungere l’ambiente di scogliera, che si inizia a vedere solo intorno ai quaranta metri di profondità, fai un tratto in discesa con la luce puntata in avanti nella trepidante attesa che dalla sabbia spunti il prima possibile qualche profilo roccioso, qualche riferimento. Quando arrivi sul fondo, ti assesti e inizi la tua perlustrazione e, quando possibile, la tua azione di ripresa fotografica, con le attrezzature al loro posto.

L’immersione notturna nel mare di Capo dell’Armi è questa qui: cigliata alla tua sinistra all’andata, alla quota più profonda, e cigliata a destra al ritorno, alla quota meno impegnativa, sempre procedendo più o meno paralleli alla linea di riva. La roccia è coperta da spugne e tunicati, da echinodermi e briozoi. Popolata da piccoli crostacei, molluschi, poriferi, anellidi, soffri costantemente consapevole che non hai tempo di soffermarti a guardare le piccole cose, ma che sei lì per gli incontri più “forti”. Poche sono le fenditure orizzontali e meno ancora quelle verticali nelle grandi pareti di roccia. Ma quando ti affacci e vedi un dentice che dorme immobile davanti a te, il dito sul pulsante di scatto va da solo e i lampi del flash si riflettono su una livrea che non trova parola per essere descritta, tanto è bella. Lo sguardo cattivo di un pesce dai lunghi canini è inequivocabile: il dentice vuol stare in pace. Quante notturne ho fatto in questi ambienti non proprio facili e quante straordinarie avventure. Ma soprattutto quanti dentici; ricordo una volta, con un caro amico (qui si va sempre in due, massimo tre per volta), la grande quantità di dentici avvistati in una sola immersione. Erano poggiati come sempre con il ventre a sfiorare la sabbia del fondo, tranquilli all’apparenza. Mi avvicinavo, facevo il primo scatto, poi vedevo il pesce iniziare a muoversi; il nervosismo del dentice stordito dalla luce cresce di solito un secondo dopo l’altro, e hai tempo di fare il secondo scatto, al massimo il terzo, dopo di che vedi il bestione (son sempre pesci dai tre ai sette/otto chili) sollevarsi e scattare verso l’ignoto. Solo una volta ebbi la fortuna di vedere il dentice tornare verso di me e scattai una foto memorabile, con il pesce di tre quarti e il muso rivolto verso l’osservatore. Una foto fatta al volo, come molte foto dinamiche che devono cogliere l’attimo fuggente, nello specifico lo sguardo di quel pesce dal muso cattivo, una foto che congela indelebile il ricordo e l’essenza di quegli incontri tra l’uomo e il pesce. Se il dentice si sente invece protetto da un ambiente chiuso, la sua permanenza davanti al fotografo subacqueo può essere anche molto lunga. Quella sera c’erano dentici dappertutto. Un sogno!

La castelluccia
Non posso smettere di scrivere di questi luoghi senza parlare della grotta antistante “La Castelluccia”, dove una notte vidi il dentice più grande mai incontrato in vita mia. Con l’imboccatura rivolta verso il mare aperto e simile all’ingresso di una galleria di autostrada, questa cavità si trova intorno ai cinquanta metri di profondità e segna l’inizio di una delle cigliate del luogo, in questo caso meno alta e imponente ma più varia e movimentata, in alcuni casi e in alcuni tratti anche troppo profonda per l’immersione ad aria. La grotta è perlustrabile con facilità, purché si abbia la necessaria esperienza per affrontare una simile immersione, dove profondità e antro sommerso sono fattori che, sommati, rendono le cose un po’ particolari e diverse dal solito. Con una buona fonte di luce artificiale e dopo i primi indugi nell’affrontare il buio creato all’ingresso dall’imponente volta, si accede procedendo lungo il perimetro di questo camerone di pietra, sul cui tetto è tutto un accavallarsi di forme viventi di tipo diverso. Il fondo è fango, della peggiore specie, quello che se ti appoggi sprofondi come accade con le sabbie mobili. Il fango e il tipo di ambiente sono però habitat ideale per nutrite famiglie di corvine e sciami infiniti di gamberi rossi, bellissimi. Lo scenario è mozzafiato ed io conservo sempre vivo il ricordo delle prime visioni di questa grotta con le corvine tutte insieme circondate dal rosso dei gamberi e disturbate da qualche grongo, grosse murene o panciute musdee dai lunghi baffi. Che dirvi: fotografare è difficile, osservare un po’ meno; godere è un privilegio per chi ha abbastanza pratica nell’immersione profonda ad aria. Sul tetto della grotta vive uno splendido ramo di gorgonia del genere Lophogorgia, tutta gialla, e tutt’intorno è una festa di castagnole rosa. Molte sono le stelle pentagono arancioni, anche grandi, e il fango grigiastro fa risaltare molto i colori di pesci e invertebrati. In grotta, una volta, mi capitò persino di trovare un doglio che deponeva le sue uova tenute insieme da un nastro gelatinoso, anche se corvine e gamberi rimangono il pezzo forte di questa immersione. Il periplo dell’antro ci consente di arrivare fino in fondo al grande ambiente, adatto ad ospitare due o tre sub alla volta che abbiano una buona dimestichezza coi fondi fangosi (vietato sollevare sospensione), senza però affacciarsi alle ulteriori più piccole cavità secondarie, a misura d’uomo e molto pericolose, dove vedremo svanire le corvine come fantasmi ma dove i gamberi saranno sempre così fitti e disponibili da saziare la sfrenata curiosità dei subacquei in cerca di emozioni.

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