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domenica 10 aprile 2016

ENI - Patrimonio Italiano
Diversamente da quello che si dice in giro, l’Italia non è un Paese povero di risorse petrolifere e gas. Il patrimonio di idrocarburi italiano va riletto all’interno del contesto europeo dove l’Italia occupa una posizione tutt’altro che marginale: esclusi i grandi produttori del Mare del Nord (Norvegia e UK), il nostro Paese occupa il primo posto per riserve di petrolio ed è il secondo produttore dopo la Danimarca.
Nel gas, invece, si attesta in quarta posizione per riserve e in sesta per produzione. L’esame dei progetti proposti o già avviati dagli operatori sulle riserve già accertate e non ancora sviluppate indica come sia possibile più che raddoppiare la produzione petrolifera attuale nell’arco del decennio in corso. In Italia le attività dell’upstream, cioè dell’esplorazione e produzione di oil&gas hanno un peso significativo, è un settore di cui il Paese può andare orgoglioso e che il referendum, se passasse, metterebbe in difficoltà.
Nel 2015 le attività upstream hanno garantito produzioni nazionali per 5,8 Mtep di petrolio e 5,9 Mtep di gas all’anno, circa il 10% del fabbisogno nazionale di petrolio e gas. Ovviamente sono tutte risorse che, se non producessimo in casa, dovremmo importare. Questa produzione comporta diversi benefici. Innanzitutto un risparmio sulla bolletta energetica di circa 3,5 miliardi di euro/anno.
Inoltre stiamo parlando di un settore che genera investimenti per circa 1,2 miliardi di euro/anno, che si traducono in circa 10.000 posti di lavoro diretti e indiretti nella sola attività estrattiva, oltre a circa 19.000 addetti nell’indotto esterno al settore. Non solo. L’upstream italiano genera investimenti nella ricerca per oltre 300 milioni di euro/anno, coinvolgendo università e politecnici in formazione di know how altamente specializzato. Ancora: la ricchezza prodotta da esplorazione e produzione di idrocarburi genera circa 630 milioni di euro/anno di imposte sul reddito d’impresa e oltre 310 milioni di euro/anno di royalties e canoni.
La valorizzazione delle risorse energetiche nazionali è un’opportunità di crescita e sviluppo per l’Italia. La messa in produzione anche soltanto di una parte delle riserve ad oggi non sfruttate, potrebbe attivare investimenti per circa 10 miliardi di euro nel prossimo piano quadriennale con un impatto sull’occupazione stimabile in oltre 5.000 unità per i prossimi 6-10 anni in imprese localizzate, pari a 50.000 ULA (unità lavorative annue), nei distretti industriali ad alta specializzazione legati alla filiera dell’energia.
Inoltre, potrebbe generare entrate fiscali per oltre 1 mld €/anno per Stato, enti locali e comunità interessate, per un periodo di oltre 20 anni e consentire risparmi sulla bolletta energetica di oltre 50 mld €. E se invece decidessimo di ridurre le attività upstream in Italia, che impatto si registrerebbe? Occorre essere realisti e dire le cose con chiarezza. L’Italia e l’Europa avranno bisogno di utilizzare (e importare) idrocarburi ancora per decenni.
Oggi l’Italia importa circa il 90% del petrolio e dei prodotti petroliferi necessari a soddisfare il suo fabbisogno e circa il 90% del gas. A meno di breakthrough tecnologici – ad oggi difficilmente immaginabili – gas e petrolio alimenteranno ancora nel 2030 oltre il 50% della domanda primaria di energia. In particolare – dato il percorso di decarbonizzazione che l’Europa e l’Italia hanno compiuto – sempre più rilevante sarà il ruolo del gas naturale per il soddisfacimento del fabbisogno energetico, in integrazione con le energie rinnovabili.
Il gas naturale, che è un combustibile pulito e versatile, oggi soddisfa il 33% del fabbisogno italiano di energia primaria, nel 2030 è prevedibile che questa quota raggiunga circa il 36%, mentre i prodotti petroliferi vedranno ridursi la loro quota dal 35% del 2015 al 33% del 2030. Ricordiamolo di nuovo, in questo contesto: l’Italia ha una dotazione di riserve certe, probabili e possibili di gas e petrolio pari a circa 700 Mtep, cioè circa 7 volte l’intero consumo nazionale di gas e petrolio del 2014. C’è inoltre un grande malinteso alimentato ad arte. Vogliono far credere che il referendum sia sul petrolio, ma riguarda le piattaforme offshore. Vogliamo andare a vedere una volta per tutte cosa esce da quelle piattaforme?
La produzione offshore di Eni è costituita per il 93% da gas naturale e solo per il 7% da petrolio. Il gas naturale è considerato tra le fonti di energia più pulite attualmente accessibili. In fase di combustione produce minime quantità di inquinanti atmosferici come CO2, NOx, trascurabili emissioni di SO2 e non produce polveri sottili. Il gas naturale inoltre non è inquinante per le acque, per suolo e sottosuolo.
Le 79 infrastrutture Eni attualmente operative nell’off-shore (72 piattaforme di produzione gas e 7 olio) di Emilia Romagna, Marche, Abruzzo, Calabria e Sicilia subiscono costanti attività di manutenzione ordinaria e straordinaria che coinvolgono oltre 1200 aziende. Le unità produttive offshore di Eni operano senza incidenti ambientali da oltre 50 anni. Provate a fare ricerche d’archivio sui giornali: per trovare un incidente vero a una piattaforma bisogna andare indietro al 1965 (piattaforma Paguro)! La verità è che stiamo parlando di uno dei settori più sicuri d’Italia, che segue i più alti standard di sicurezza, tutela delle persone e del territorio, standard che sono certificati da organismi internazionali indipendenti (ISO 14001 e OHSAS 18001).
Le piattaforme entrano in esercizio a seguito di un processo che prevede almeno 26 fra autorizzazioni e nulla osta da parte di Ministeri e loro organi tecnici (MISE, Ambiente, beni culturali, Capitanerie di Porto, Vigili del Fuoco), ARPA/ISPRA e Regioni, nell’ambito di un iter trasparente e pubblico. Le operazioni delle piattaforme – dopo il collaudo – sono soggette a continui controlli e ispezioni da parte di autorità di vigilanza e Capitanerie di Porto: controlli sulla qualità delle acque, sulla qualità dell’ambiente marino, sulle emissioni in atmosfera.”
(di Marco Bardazzi, responsabile comunicazione ENI)

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